La città è attraversata dall’ urlo delle sirene e tu ne conosci il perché: aumentano i contagi – recita ossessivamente la Tv – e lo sfrecciare delle autoambulanze conferma l’aggravarsi dell’epidemia. I problemi sono mille, ma l’urgenza maggiore ora riguarda i tanti colpiti dal virus, i tantissimi morti. Non puoi toglierti dagli occhi lo scenario che ogni momento prende corpo attraverso le immagini dello schermo: le sale della terapia intensiva, i medici e gli infermieri nei loro scafandri di protezione, le bare che affollano i non luoghi di molte città. Ma tra tutte non m’abbandona l’ immagine tua, Margherita, forse perché ti conosco, conosco la tua storia e capisco che sei la vittima sacrificale di quest’ecatombe, tu e l’infinita schiera dei vecchi, tuoi compagni di solitudine. La tua non è un’immagine virtuale, perché so con precisione ciò che ti è accaduto e riesco anche a percepire il tuo senso di abbandono, di impotenza, le tue paure di morte diventate ad un tratto concrete. Hai quasi novant’anni e avevi immaginato la tua vecchiaia diversa da quella che poi si è rivelata. Ti portavi dentro l’idea del tempo andato, quando il vecchio di casa restava in famiglia, con l’aureola della sua saggezza , non necessariamente amato, ma rispettato sì, protagonista di un ciclo vitale dove nascita e morte disegnavano una parabola naturale. Per te non è stato così: i tempi cambiano, tutti hanno fretta, tante cose da fare, doveri più o meno importanti da assolvere, nessun figlio o nipote disposto a mettersi in tuo ascolto che pure di cose da raccontare ne avresti avute molte. Appena hai incominciato ad avere qualche problema, quando anche la lucidità intellettuale ha cominciato ad essere intermittente, sei diventata ingombrante, come se la tua presenza ostacolasse la vita degli altri, fosse un impedimento, un inciampo. Tuo figlio con po’ di senso di colpa, subito tacitato, ti ha accompagnato un giorno- era Aprile e iniziava a sentirsi odore di primavera- in una casa di riposo, un posto certo dignitoso, con suorine garbate che potevano prendersi cura di te, un bel giardino intorno e dei compagni con cui immaginare nuove relazioni. Ma sì, in fin dei conti la soluzione migliore, per tutti, tranne che per te, che non potevi rassegnarti all’idea che nessun oggetto del tuo amore fosse all’altezza di quest’amore: nessuno capace di dimostrarti che i tuoi ultimi anni contavano per lui qualcosa. Improvvisamente ti sei sentita cancellata, come rimossa: dovevi solo startene tranquilla, togliendo il disturbo. Alla fine ti eri rassegnata, sempre più sperduta, sempre più dipendente , sempre più silenziosa, senza le parole che contano. Poi come un ciclone è arrivata l’epidemia: visite vietate, ogni legame spezzato, un’angoscia diffusa. Chiunque poteva all’improvviso ammalarsi, rimanere isolato, in attesa di cure inadeguate, spesso inefficaci. Margherita aspettava il suo turno che sapeva sarebbe arrivato, perché difficile difendersi in una comunità, tra persone a rischio, come lei, anziane, con patologie pregresse, fragili. La fragilità degli anziani era un ritornello che, ripetuto, mostrava tutte le falle di un sistema in cui tu eri una rotellina destinata a saltare. E il momento della rottura arrivò , con la febbre, la tosse, la mancanza d’aria, con forze sempre più esauste. Anche la morte, compagna nel periodo finale di ogni vita, alla cui realtà avevi cercato di prepararti, l’avevi sperata diversa : un rito di passaggio, confortato dal compianto degli affetti più cari. Invece, quando te ne sei andata, eri sola e la famiglia impossibilitata ad avvicinarsi, anche dopo che tutto era finito. Niente funerale, niente rito collettivo. niente saluto risarcitorio per un lutto annunciato, vissuto da” remoto”, come impone il nostro tempo, il tempo del Covid.