Per non dimenticare: la voce degli IMI (internati militari italiani)

Un lavoro davvero importante quello di Giuseppe Improta che con il suo libro Sul treno con Levi. Il ritorno dal lager nel diario inedito del caporale Arcopinto (la Valle del Tempo edizioni) ha inteso non arrendersi alla logica del nostro tempo segnato da sempre più frequenti e pe­ricolosi vuoti di memoria.

Un lungo e colpevole silenzio non ha reso immediata giustizia alla tragica vicenda dei prigionieri italiani della Seconda Guerra Mondiale, nonostante gli sforzi compiuti dalle associazioni degli ex internati, tra le quali la Anei, l’Associazione nazionale ex internati, costituitasi già nel 1946. Tanti infatti furono i militari italiani che, dopo l’8 settembre del 1943, si rifiutarono di combattere per i Tedeschi e furono catturati (moltissimi in Grecia e nella Penisola Balcanica) e successivamente trasferiti nei cam­pi di prigionia in Germania o nei paesi dell’Europa orientale occupati dall’esercito germanico. Gli Internati Militari Italiani (IMI) dovevano essere considerati prigionieri di guerra, ma una serie di circostanze portò al mancato riconoscimento di questa condizione. Il 20 settembre 1943 Hitler impose che fossero classificati Italienische Militär-Internierte (Internati militari italiani, Imi), una categoria di militari riconosciuta dal diritto internazionale ma non tutelata dalla Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra (27 luglio 1929). Hitler intese così punire gli italiani considerati appunto inaffidabili e traditori, ma allo stesso tempo la scelta fu anche dettata da motivi politici in quanto rico­noscere loro la condizione di prigionieri significava riconoscere il Regno del Sud nato dopo l’8 settembre. Dai Tedeschi i prigionieri furono chia­mati con disprezzo “badogliani” o “maccaroni” e sottoposti a un vero e proprio “martirio fisico e morale”.

Giuseppe Improta dà voce nel suo agile e importante libro alle testimonianze di internati stabiesi e dell’area vesuviana, alla tragica vicenda di Vincenzo Ambrasi e riporta il diario di Michele Arcopinto, che costituisce un viatico alla cono­scenza del dramma vissuto da tanti italiani. È un resoconto scarno ed essenziale, il tono è colloquiale, la sintassi spezzata e asimmetrica. Le annotazioni, sebbene brevi, sono quasi giornaliere. La parola più ricor­rente, ripetuta quasi “ossessivamente”, è speranza (“Pure oggi è passato, spero sempre al domani”), così come però frequentissimi appaiono la sfiducia, la noia (“Oggi il mio lavoro è stato: mi sono lavato la faccia e ho mangiato tre volte e così è terminato oggi”), il dolore, la sofferenza, lo sfinimento. E, su tutto, l’attesa che arrivi il turno della partenza alla volta dell’Italia. Lo ripete spesso il nostro Arcopinto: “il mio pensiero è ad andare a casa mia”. E poi la delusione provocata dall’allontanamento dalla meta desiderata, allorquando il gruppo dell’Arcopinto viene tra­sportato verso Mosca. Negli appunti del soldato napoletano si ritrovano molti passaggi comuni al capolavoro di Primo Levi, sul cui confronto nel dettaglio si soffermano le riflessioni di Giuseppe Improta che seguono il diario dell’Arcopinto. Un viaggio appunto attraverso Russia, Ucraina attuale, Polonia, Romania, Ungheria, Cecoslovacchia, Austria che sem­bra agli occhi dei protagonisti non avere mai fine.

Non resta dunque che leggere attentamente la testimonianza dell’Ar­copinto e altre esperienze di soldati e civili campani finiti prigionieri dopo il 1943. Una buona pratica di memoria, insomma, di cui abbiamo sempre bisogno e che val la pena continuare ad esercitare per tenere in vita la storia e noi stessi.

MARIO ROVINELLO