Le date-anniversari, riferite a eventi, processi, figure, hanno la funzione – soprattutto se e quando si compongono in serie a costituire il cosiddetto “calendario civile”- di collegare il passato al presente, di imprimere in quest’ultimo solchi e tracce profonde, che provengono dal primo. Ma accanto e oltre la memoria, pure fondamentale fattore di conoscenza e ri-conoscimento, c’è la storia, vale a dire la ricostruzione di quella realtà, più e meno lontana nel tempo, che in ogni caso continua ad accompagnarci ed a segnarci. Ha ben ragione Massimo Recalcati, al riguardo, nel distinguere la memoria-‘archivio’, depositata e inerte; la memoria- ‘fantasma’, inquieta e inquietante; e infine, la più importante e decisiva memoria quale fattore produttivo di futuro

Alla luce di queste preliminari osservazioni e note, ci introduciamo all’ormai prossimo 2 giugno, nascita della Repubblica (e fine del Regno precedente), a seguito di referendum popolare –accoppiato alla tornata elettorale politica per l’elezione dell’Assemblea Costituente- svoltosi appunto in quel secondo giorno del mese finale della primavera del 1946, dunque 75 anni fa. E’ stata un’occasione straordinaria, un nuovo inizio, l’avvio di una vera e diversa storia dopo il fascismo, dopo la guerra, con l’incombente e assillante impegno di risorgere, di uscire dal tunnel e tornare a vivere, inoltrandosi per un territorio non ancora esplorato da dal quale ci si aspettava tanto, ma davvero tanto e comunque di ‘altro’ da quanto si era fino a quel momento vissuto, desiderando che cambiasse, si trasformasse in maniera radicale. In compagnia solidale, questa volta e politicamente per la prima volta, con “l’altra metà del cielo”, cioè con le donne che vedevano, sempre a partire da quel 2 giugno del quale stiamo parlando, riconosciuto il loro diritto a partecipare, da cittadine militanti, attraverso il voto, alla vita ed all’attività politica e istituzionale.

Conquiste non certo da poco, se si pensa alla liquidazione della monarchia, complice e promotrice del fascismo; ai presupposti su cui si andava costruendo il nuovo assetto repubblicano, con la rimessa in auge dei partiti e con il sigillo inderogabile dell’antifascismo, quale connotato esterno formale ma più ancora come interno, convinto e condiviso segno, e segnale, identitario del Paese e della comunità nazionale.

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Questo per richiamare e delineare il quadro nazionale, col referendum vinto, con oltre due milioni di scarto, dal voto repubblicano, diffuso però nel paese in maniera varia e contrapposta, considerato che da Roma in giù, in pratica nell’intero Mezzogiorno continentale (che ci riguarda più da vicino) e nell’epicentro napoletano è avvenuto l’esatto contrario, con  circa l’80 per cento dei suffragi andati alla monarchia ed il venti per cento all’opzione repubblicana. E’ vero anche, e lo richiamo e rilevo da subito, che per l’insigne meridionalista Manlio Rossi Doria, s’è trattato proprio, a proposito del voto meridionale per la Repubblica, del contributo quantitativo e qualitativo, necessario e indispensabile alla vittoria finale. Ma tant’è e da allora, e fino ai nostri giorni, ci si interroga sui ‘perché’ di quel ‘come’, sui motivi e sulle prospettive connesse e alla base di quella scelta. Insomma, un caso-Napoli (ed un caso –Sud) con una ulteriore espressione e variazione sul tema, di qualcosa riapparso tante volte, prima del 1946 ma anche dopo, che si presenta e ripresenta nei momenti cruciali della storia nazionale, quelli nei quali, come avvertiva proprio in quell’anno Federico Chabod, l’Italia faceva riemergere la natura del proprio processi di formazione unitaria partito in effetti a da ‘pezzi’ diversi e distanti che si erano, o erano stati, assemblati, messi insieme (“Italiani per forza”, come nel titolo del recente libro di Dino Messina?).

Preferisco non ingolfarmi in una disputa senza fine su “unione” e “unità” d’Italia (biennio 1860-61, con tutto quello che ne consegue) e concentrarmi su Napoli e sul tragitto compiuto dalla Città (“sospesa”, come definita nel titolo di un recentissimo studio) dal 1943 al 1946, dalla Libertà (conquistata con le Quattro Giornate), alla Liberazione (aprile-maggio 1945, epilogo vittorioso della Resistenza e della lotta armata partigiana), e alla Repubblica, nell’anno successivo, come prologo e annunzio del varo della Carta Costituzionale del 1948.

Un percorso straordinario, per celerità e per l’altezza della posta in gioco e per le volontà messe in campo. Ma va egualmente messo in conto come dopo la prova eccezionale di orgoglio civile e politico racchiusa nelle Quattro Giornate di fine settembre 1943, la nostra Città ha vissuto l’ambiguo clima della “pace dimezzata”, il rapporto tutt’altro che lineare e stabilizzante con le truppe alleate (soprattutto la presenza americana apportatrice di novità e fermenti, non tutto né sempre “in positivo” e soprattutto non destinato a cambiare durevolmente forme e destino di vita  della comunità locale, uscita letteralmente a pezzi da tre anni di guerra micidiale). Nel corso del 1944 e della prima parte dell’anno successivo, riprendono in sostanza il sopravvento stati d’animo e attitudini mentali ispirati dall’insicurezza, dal bisogno di ordine e protezione (dopo l’esplosiva affermazione, in precedenza, del forte istinto di libertà), dalla ricerca di ancoraggio al già noto e sperimentato, piuttosto che di rischiosi tentativi di battere vie nuove e diverse. Ne fa le spese, o si dovrebbe dire, torna a farne le spese il rapporto con la politica e le istituzioni sul piano locale, nonostante quanto si sforzino di fare le amministrazioni comunali guidate da Sindaci di provata onestà e indiscutibile valore (quali Ingrosso e ancor più Fermariello), nonché quel che cerca di proporre e realizzare il governo bazionale retto dall’azionista ed ex-partigiano Ferruccio Parri.

Ha ragione quindi il Prefetto Selvaggi che in quegli anni, più volte, informa il governo centrale circa lo “spirito pubblico” che si è formato e che caratterizza la situazione napoletana. Così accanto alle precarie condizioni di vita  materiale, egli vede, e ne riferisce, la montante disgregazione sociale, il dilagare della corruzione, la piaga della prostituzione per bisogno, il disastro del mercato nero, l’alterazione dei tradizionali  profili di classi e ceti. Insomma, una profonda sovversione morale e civile a cui non riesce a porre alcun rimedio una politica verso la quale, anzi,  cresce ogni giorno di più la sfiducia, peggio, il più radicale disinteresse quando non si attivi il rancore e l’addebito di ogni colpa be responsabilità.

E’ questo il quadro via via che ci si avvicina all’appuntamento elettorale del 2 giugno ’46; come è stato detto da più di uno storico interessato al tema, la fase in cui il “vento del Sud” si trasforma nel “vento di destra”, come puntualmente si riflette nel voto dei napoletani, giunto al termine di una campagna elettorale aspra e non priva di episodi di sopraffazione e di violenza. 560mila elettori, dei quali 100mila disertano le urne e ventimila optano per schede bianche e/o nulle; uniforme l’orientamento in tutti e 27 i quartieri cittadini, con oscillazioni non particolarmente significative tra quelli ‘borghesi’ e quelli popolari e ultrapopolari (per intendersi, il centro antico, o Chiaia, Posillipo, Vomero). Con le eccezioni dei quartieri della cintura  operaia in cui la repubblica ottiene consensi oltre il 30 e il 40 per cento. Stravince il voto monarchico (quasi l’80 per cento) e d’altro canto il voto politico, nello stesso giorno, fa registrare un 20 per cento a favore della Sinistra, valore corrispondente ai suffragi conseguiti dall’opzione repubblicana nel referendum. Peggio ancora il risultato del voto amministrativo alcuni mesi più tardi, con una astensione  che supera il 50 per cento (e i voti non validi al 10 per cento), alla Sinistra, poco più del 30 per cento e voto “di dispetto”, o punizione, nei confronti della DC, ‘rea’ di collaborare con le forze di sinistra nel governo nazionale !

Ma comunque la Repubblica è nata, per tutti e con tutti quanti finiranno per accettarla; la Sinistra resta viva e attiva, in attesa –non inerte- di tempi migliori (che compariranno e porteranno anche grossi successi nei decenni a seguire) . Nel frattempo, le cose sono andate come si è qui ricordato, e come è utile e doveroso sapere e non dimenticare, perché se è vero che la storia non si ripete, è vero pure che si ripresenta, in eventi e con modi che la fanno diversa all’apparenza, ma tremendamente uguale nella sostanza.

 

GUIDO D’AGOSTINO (presidente Istituto Campano per la Storia della Resistenza “Vera Lombardi”)