Anche quest’anno, e posso aggiungere: ancora una volta, l’approssimarsi del Giorno della Memoria mi ha spinto a concentrarmi più sulla memoria che sul suo oggetto specifico, per l’occasione il tragico evento dello sterminio degli ebrei ad opera del nazismo, il più terribile crimine che l’umanità ha commesso contro se stessa, ancor più che contro una parte di essa. Mi torna ancora alla mente, intanto, la mia prima reazione, quando una ventina di anni fa è stata istituita l’apposita legge (211, del 20 luglio 2000), di netta contrarietà al “ricordare per legge”, salvo poi, via via, riconoscere che la legge doveva e poteva costituire uno stimolo ad affrontare temi cruciali della e per la nostra comune civiltà, sensibilità ed etica. In questo modo, in effetti, mi pareva che poi ci saremmo dovuti tutti impegnare a riempire nel modo giusto il percorso e il processo che ne conseguivano. Sicché ho seguito con interesse tutta una serie di punti problematici emersi negli anni, molti dei quali richiamati e collegati tra loro nei saggi e negli scritti raccolti nel bel volume curato da Alessandro Portelli (“Calendario civile”, 2017). A partire dalla puntualizzazione di quanto recita la legge stessa, intesa a fissare il ricordo della Shoah, delle leggi razziali, della persecuzione italiana dei cittadini ebrei, e insieme, di quanto patito dagli italiani stessi in quell contesto, in ragione del loro comportamento di opposizione al progetto di sterminio, rischiando la vita per salvare altre vite e proteggere i perseguitati. Insomma, le vittime e però anche i Giusti, organizzando nel giorno 27 gennaio di ogni anno quanto di meglio, di utile e opportuno (cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione) innanzitutto nelle scuole, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei lager messi su dai nazisti, e così conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un periodo orribile da noi e in tutta Europa, “e affinché simili eventi non possano mai più accadere”.
Di fronte a tutto quanto riportato qui sopra si è obiettato che non è stato rispettato il carattere inclusivo della legge, non si è ottenuto di contrastare il negazionismo, né conseguito che orrori del genere non si ripetano più; si è piuttosto confuso tra loro memoria e storia, si è tentato l’impossibile: rappresentare l’invisibile, e via dicendo. Di contro si è reputata di eccezionale validità e importanza l’apposizione delle “pietre d’inciampo” davanti alla casa di tanti deportati e uccisi.
Anch’io, in realtà, penso che Auschwitz vada “pensata storicamente”, poiché è vitale veramente guardare quel passato e non negare che riguarda se stessi, “non perché colpevoli ma perché quella storia è imprescindibile dalla propria identità collettiva”, come avverte E. Loewenthal, anche per evitare gli eccessi opposti di sacralizzazione e/o banalizzazione della stessa Shoah.
E’ in questa cornice che ritengo vada a collocarsi il mio “pellegrinaggio nella memoria”, i suoi significati, il suo utilizzo, gli esiti che possono provenirne, il rapporto tra memoria e storia, tra ricordo personale e rimembranza celebrativa pubblica, e tanto altro. Tutto ciò, mentre mi apprestavo a partecipare alla straordinaria impresa culturale, civile e politica di cui si è reso promotore e realizzatore l’Istituto Scolastico Superiore “Europa” di Pomigliano d’Arco, dalla significativa intitolazione “La Memoria rende liberi”. Ho ripercorso, ampliandoli, tanti miei passi già indirizzati all’approfondimento teorico e pratico dell’idea, e azione, connesso e incardinato sul termine-concetto di “memoria”; ho riflettuto sulla memoria come facoltà psichica che permette di trasformare i dati che provengono dalla sfera della percezione in elementi integranti e dinamici della propria personalità. Ho rivangato la triplice accezione individuata da M. Recalcati: memoria-archivio; memoria-spettro; memoria, attributo del futuro; mi sono quasi smarrito rileggendo le parole di Italo Calvino, secondo cui la memoria “conta veramente solo se tiene insieme l’impronta del presente e il progetto del futuro; se permette di fare senza dimenticare quello che si voleva fare, di diventare senza smettere di essere, di essere senza smettere di diventare”. Ho percepito appieno la profondità di una sentenza apparentemente semplice e lineare: “chi coltiva il passato, raccoglie il presente e nutre il futuro” (Liverini).
Insomma, forse ne sono uscito persino più forte, confermato in ciò che da tanto vado pensando e predicando: la memoria come diritto, ben più e ben prima che un dovere; la memoria ha essa stessa I suoi diritti; la memoria ha a che vedere, più che con il passato, con il presente e con il futuro; la memoria è progetto, della e per la vita che ancora ci resta da vivere; la memoria è un formidabile, fondativo “bene comune”!
Guido D’Agostino
Presidente dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza