Salve Regina madre di misericordia vita dolcezza e speranza nostra
a te ricorriamo noi esuli figli di Eva
a te sospiriamo gementi e piangenti
in questa valle di lacrime
orsù rivolgi a noi gli occhi
tuoi misericordiosi
e intanto pelava due patate e tre carote in una ciotola di plastica consumata, poggiata sul marmo della finestra. Le sarebbero bastate per due giorni.
Non posso tornare in paese, che è sempre il luogo in cui ricompatto i pezzi che cadono, dovrò tenermeli qui ‘sti pezzi, in mezzo ai palazzi. Non potrò andare al cimitero a trovare Michele, non potrò andare a Messa e la spesa me la porteranno a casa, così mi hanno ordinato le mie figlie.

Per il resto sarà tutto uguale, comunque verrà la sera e di nuovo la mattina. Così pensavo quando appresi la notizia che mi avrebbero atteso giorni di clausura. Il mondo si era accorto che in pericolo non eravamo solo noi anziani, ma tutti e, quindi, si era reso indispensabile fermare ogni attività. Avrebbero vissuto come me, che da tempo mi limitavo a osservare le vite degli altri dal balcone.

C’era un sole cocente quando salii sul terrazzo condominiale a stendere il bucato. Mi piaceva l’odore della biancheria pulita e lì su si mischiavano i profumi degli ammorbidenti di tutto il vicinato e, spesso, incontravo qualche donna. Nessuna, però, tranne qualche “buongiorno”, mi aveva mai rivolto la parola. Non per superbia, solo perché erano sempre da un’altra parte, conversavano con qualcuno con le cuffiette nelle orecchie

– Mi scusi, mi presterebbe una molletta?

Così conobbi Mario. Tra le lenzuola svolazzanti ebbi modo di osservarlo. Mi colpirono le mani, ossute e nervose, ricoperte di macchie color caffè. Anche lui, attraverso gli occhiali rossi, mi guardava, sbirciando tra un paio di pantaloni con le pinces appesi per le gambe e una camicia a righe blu.

Da quella mattina ci incontrammo quasi tutti i giorni, sempre alla stessa ora e tra un buongiorno e un commento sul tempo (immancabile argomento tra persone di una certa età) ci scambiammo qualche notizia su di noi. Era venuto a trovare la figlia per il compleanno, ma, per l’emergenza Covid, era stato costretto a fermarsi da lei. La mancanza di sufficienti vestiti di ricambio lo costringeva a lavare spesso i suoi indumenti, ma, con il passare dei giorni, cominciò a stendere anche lenzuola, strofinacci e vestiti femminili. Io li studiavo bene i panni che stendeva e forse se ne accorse

– Ora mi occupo anche della biancheria di mia figlia, le do una mano. Vivo a Torino, sono abituato ai lavori di casa. E poi è un’occasione in più per salire qui a prendere una boccata d’aria.

Il pomeriggio seguente mi ritrovai davanti allo specchio a sistemare la mascherina e a ritoccare la linea nera delle sopracciglia perché dovevo andare a raccogliere il bucato e fu allora che colsi in me un’euforia che non provavo da tempo.

E il primo maggio il campanello di casa bussò. Mario mi porgeva un piatto bianco coperto da un foglio di alluminio.

– Buongiorno Maria, mi sono permesso di portarti una fetta di torta. Oggi è il mio compleanno. Nel pomeriggio, sul terrazzo, mi dirai se ti è piaciuta.

Il mio vecchio cuore malandato cominciò a battere forte, e non era la mia tachicardia, era un battito dimenticato, che credevo fosse ormai incapace di rintoccare ancora.

Il mondo si era fermato attorno a me, tutti rimpiangevano la loro vecchia vita ora paralizzata, immobile e io, invece, stavo ricominciando a vivere.

Ho solo un desiderio: vedere presto il resto del suo viso.