Chi segue il nostro sito sa che difficilmente pubblichiamo racconti, ma vogliamo proporvene uno a doppia firma. La prima è del protagonista della storia e la seconda è di una scrittrice che ne ha curato il manoscritto. Si tratta di Virginio Carraro e di Nucci Assunta Rota laureata in sociologia della salute e della medicina.

È una testimonianza di un sopravvissuto al covid, di un uomo che nella seconda ondata della pandemia è stato costretto al ricovero a Milano in terapia intensiva per le sue gravissime condizioni.

Un racconto sicuramente difficile da scrivere, ma anche da leggere. Entrambi gli autori per motivi molto diversi avevano grande difficoltà a parlare del covid. Non una rimozione di ciò che era accaduto, questo sarebbe stato impossibile, ma solo forse un temporaneo accantonamento per poter sopravvivere con le proprie famiglie. Poi come sempre accade nella vita, quando meno te lo aspetti le strade delle esistenze si incrociano e scopri quanto sia importante, quanto la memoria sia un dovere ma anche e soprattutto un diritto. 

A questo punto non posso invitarvi, come mia abitudine, alla lettura. Sebbene a lieto fine e curato da mano esperta, il racconto resta, come è giusto che sia, inalterato nella sua drammaticità e potrebbe risultare di difficile lettura. Ringrazio ancora Virginio Carraro per averci raccontato la sua storia e per averne acconsentito la pubblicazione sul nostro sito.

                                                                                                                            CARLO DE CESARE

                                                                          IL MIO COVID

                                                            L’esperienza di Virginio Carraro,

                                                                   a cura di Nucci A.Rota

                         INDICE

                  1-   I primi sintomi.

                  2-   L’arrivo dell’ambulanza e l’ospedalizzazione 

                  3    La terapia intensiva                 

                  4…Respirare autonomamente e le dimissioni                 

                  5….Casa  –

 

                                                                           1- I primi sintomi

Le pagine che seguono riportano la mia avventura sanitaria avvenuta nella seconda ondata Covid del 2020. Può sembrare strano, dopo due anni circa proporre questa esperienza che ha segnato duramente la mia vita, ma il ritardo lo si deve a diversi motivi.                                                                                                                        Iniziare a scrivere non è stato immediato, dopo la “guarigione”, sentivo il bisogno di far decantare il tutto, forse elaborare l’avventura di sopravvissuto alla morte, data quasi per certa dagli stessi operatori sanitari, appena mi hanno visitato.                                                                                                                                                   Quando iniziai a prendere appunti li scrivevo, così come i ricordi mi suggerivano, senza dare sistematicità alla scrittura e mai trovavo il tempo per riguardarli, dal momento che ho iniziato subito, a guarigione avvenuta, a lavorare.                                                                                                                                                                     Ho sempre voluto, e voglio tuttora socializzare la mia esperienza, sia negli aspetti drammatici ma anche non tralasciando quegli atteggiamenti e comportamenti che mi hanno sorpreso in positivo, dall’ inizio del mio Covid, come quello degli operatori sanitari ma anche quello dei miei familiari, in particolare mia moglie.

Tutto ebbe inizio nel novembre 2020; avevo superato tutto della prima parte, la più critica della Pandemia, dalla sua dichiarazione nel marzo del 2020 al  lockdown fino a tutta l’estate e decisamente mi sentivo al sicuro, mascherina, disinfettante ma, ovviamente, come tutti, ero in trepida attesa del vaccino.                                     Circa alla metà di novembre del 2020 ho iniziato a non sentirmi bene, sintomi che sembravano essere di una banale influenza ma con iniziali difficoltà respiratorie. Prontamente io e mia moglie andammo dalla nostra dottoressa di base per chiedere una visita e fare il tampone. Risultammo entrambi positivi ma la dottoressa ci confortò dandoci una cura domiciliare, con antibiotici ed eparina. Con questi farmaci ed ovviamente riposo ed isolamento, mia moglie sembrò stazionaria, mentre io non vidi alcun miglioramento, anzi mi sentivo sempre peggio. I disturbi  aumentarono e non riuscivo a respirare bene , evitavo persino le scale per arrivare in camera dormendo sul divano al piano terra. Tutto questo fino al tragico 21 novembre quando, verso le 11 del mattino, telefonai a mia moglie per chiederle di chiamare l’ambulanza, non respiravo più, i sintomi erano quelli del soffocamento e mi sentivo morire.

                            2 – L’arrivo dell’ambulanza ed il ricovero presso l’ospedale Fiera di Milano

 La prima cosa a cui fui sottoposto dagli infermieri dell’ambulanza fu la misurazione della saturazione che era sotto la soglia dell’80, quindi già gravissimo; mi hanno portato d’urgenza all’Ospedale Sacco di Milano dove mi hanno messo il casco. Viste le mie condizioni mi hanno poi tolto il casco ed  intubato. Trasferito al nuovo ospedale Fiera di Milano, da poco allestito. Qui mi sottoposero a vari controlli ed è qui che vissi poi l’esperienza della terapia intensiva.                                                                                                                                                   I sentimenti provati durante tutta la degenza sono difficili da descrivere, ancor oggi nonostante siano passati più di due anni, fatico a tradurli in parole. Quello che è certo, almeno per me, è che tutte quelle emozioni, sentimenti, paure provate allora erano certamente in relazione alla mia probabile morte. A volte mi sentivo vuoto e circondato dal nulla, una dimenticanza totale di quello che ero stato, con la quasi certezza che stavo andando incontro alla mia morte. 

Per ben due volte ho percepito che la vita mi stava abbandonando e con la vita che se ne andava c’era il mio corpo che a fatica riconoscevo. Poi un forte scossone mi ha mosso tutte le parti del mio essere: era il defibrillatore perchè il MIO CUORE si era fermato, non solo una volta bensì due volte, tutto confermato poi dal medico. Poco prima del defibrillatore ho avuto una sensazione di grande freddo che saliva dai piedi ed  avvolgeva tutto il corpo. Poi, dopo lo scossone ho avvertito un calore che andava a sostituire il grande gelo, forse la morte se ne stava andando e quel calore benefico era la vita che lentamente sentivo tornare. Il passo successivo che ricordo con chiarezza fu quando mi stubarono ma non riuscendo a respirare come dovuto, decisero di  sottopormi ad una  tracheotomia ed i successivi momenti sono stati molto dolorosi, tali da viverli come un vero e proprio calvario. Ad intervento compiuto mi svegliarono ed io sentivo voci molto lontane poi sempre più vicine e quando aprii gli occhi vidi solo delle sagome completamente coperte e, solo dagli occhi scoperti, capivo che si trattava di esseri umani, non ero dunque morto, ero ancora tra i viventi.

                                                                    3- La vita in terapia intensiva

Primo step casco, secondo intubato, ultimo, sperando fosse l’ultimo, tracheotomia, il tutto per farmi respirare. Tentativo riuscito. Ricoverato in terapia intensiva.                                                                                                     Da quel momento mi sentii come in un acquario dove purtroppo, non essendo un pesce, ero completamente immobile. Senza finestre, non riuscivo a distinguere il giorno dalla notte, il senso del tempo completamente svanito, nessun contatto umano, salvo il momento in cui mi davano dei farmaci; ma anche in questa circostanza, tra mascherine e completa tuta bianca, mi pareva di essere circondato da fantasmi. In terapia intensiva penso di aver provato di tutto: perdita della mia identità: saprò ancora chi sono?, angoscia per la disabilità: riuscirò a respirare da solo o il tubo dovrò tenerlo a vita, forse non riuscirò più a parlare e comunicare con gli altri; chi sono i miei parenti? Non lo ricordavo, così come non ricordavo il mio viso, le mie sembianze in generale. Percepivo di essere al confine tra quello che mi sembrava vivere e il morire. Persone che fino al giorno prima erano nella mia stessa condizione , cioè intubate in terapia intensiva, il giorno dopo erano semplicemente dei cadaveri da infilare nei sacchi con cerniera. Il concetto di morte era, ai miei occhi di allora, lo scorrere della cerniera che chiudeva il cadavere nel sacco. Quei giorni li ho vissuti costantemente nel terrore di essere messo anch’io nel sacco. 

Più i giorni passavano più la paura della mia morte aumentava, avrebbe potuto essere il contrario, visto che sopravvivevo rispetto agli altri, tuttavia quei giorni la paura della morte era costante e l’ho avuta tutti i giorni della degenza in terapia intensiva. Avevo incubi che sono durati per parecchio tempo anche dopo la dimissione dall’ospedale, deliri ed allucinazioni. Vedevo passare gli infermieri e per me erano umani solo dalle spalle in giù, sopra avevano teste di cavallo, di  cani, di bovini. A volte la parete dove appoggiava il letto sembrava muoversi, altro elemento che mi procurava panico ed angoscia. Una notte in particolare ero convinto che volessero sopprimermi per lasciar libero il mio letto, dovettero sedarmi con la forza. Purtroppo di questo incubo non mi sono liberato facilmente, ho continuato ad avere la sensazione che qualcuno di notte mi prendesse per un braccio e mi volesse trascinare via. Così abituato prima del Covid ad addormentarmi con un braccio penzoloni fuori dal letto a tutt’oggi ho paura che di notte arrivi l’incubo per cui il braccio mi viene preso da qualcuno per trascinarmi sotto il letto, a quel punto mi sveglio agitato.

Ricordo che in questo miscuglio di angoscia, paura, incubi, deliri si andava tuttavia profilando la consapevolezza che il personale, sia medici come infermieri, erano comunque miei alleati, persone che ogni giorno lottavano per cercare la mia sopravvivenza e non la mia morte. 

Non finirò di sentirmi grato, in particolare ad una dottoressa che durante il suo turno mi parlava continuamente tenendomi una mano e quando, ero particolarmente agitato, poggiava la testa sul mio corpo,o si sdraiava accanto riuscendo in questo modo a tranquillizzarmi (grazie dottoressa Alessandra ).

Un giorno mi chiesero se volessi fare una videochiamata a mia moglie. Ricordavo che anche nella prima fase con il casco vollero chiamarla, io la vedevo ma non riuscivo ad esprimermi, poi arrivò un colpo di tosse, mi tolsero il video. Questo mi venne poi confermato da mia moglie. A questa seconda possibilità dissi di sì, anche se in quel momento non ricordavo chi fossero i miei familiari. Quando in video apparve una donna in lacrime io non capivo chi fosse e questo fu traumatico, anche se finsi di conoscerla, poi qualche dettaglio della donna mi stimolò qulche ricordo, non nel tempo consentito della chiamata.                                                                                            Quando terminò la call mi ricordai che ci eravamo ammalati insieme, insieme siamo andati dal nostro medico di base, insieme abbiamo iniziato la cura. Lei era stazionaria io ero peggiorato, ma a lei non avevo chiesto come stesse ora, avrei invece dovuto, anche lei poteva essere ancora malata. Rimasi turbato per questo. Per fortuna  le mie condizioni andavano migliorando così potevo vederla e riconoscerla nelle chiamate successive  avendo anche molto conforto e benessere dal conversare con lei. Ora il suo viso mi era familiare, potevo fare domande e rispondere alle sue, alla fine delle chiamate mi sentivo sereno. Mia moglie in seguito ha riferito una comunicazione efficace del mio stato di salute da parte dei sanitari con telefonate quotidiane. 

Vorrei, esprimere una mia opinione personale circa  la terapia intensiva: certamente è indispensabile in alcuni casi e sicuro nel mio caso lo è stata, ma per me è stata forse l’esperienza più dolorosa che abbia  mai vissuto, soprattutto dal punto di vista psicologico. Ancor oggi penso a quei giorni e notti interminabili quando mi sentivo distrutto da quel che vedevo e sentivo. Mi auguro che non sia sempre così per tutti coloro che, costretti dalle emergenze sanitarie, debbano ricorrervi. Nel mio caso l’esperienza Covid ha sicuramente aggravato tutto, non penso che in una normale terapia intensiva si possa vedere dei pazienti con cui scambi degli sguardi ed i giorni seguenti alcuni non ci sono più, non perchè spostati di reparto o dimessi, ma perchè deceduti e messi nei sacchi. A titolo di esempio voglio riportare quel che mi accadde durante gli ultimi  giorni di terapia intensiva.

Proprio di fronte al mio letto ricoverarono due persone, adulti all’incirca della mia fascia d’età, tra i 50 e 60 anni, di ottimo aspetto, forse perchè abbronzatissimi e di ottimo umore, rientrati da una crociera. Ci scambiammo sguardi e segnali non verbali. Pollice alzato, spalle alzate. Mi sembravano più in forma di me. Il giorno successivo vidi solo uno dei due, l’altro era deceduto la notte stessa. Purtroppo dopo qualche giorno anche l’amico morì per le gravi conseguenze da Covid, contratto durante la crociera. Non si riesce ad essere insensibili di fronte a questo, io con il casco prima, poi intubato, poi tracheotomizzato eppure ero ancora vivo, come era possibile che due persone, di ottimo aspetto si fossero così aggravate in poco tempo e morire quasi in contemporanea? Rimasi a dir poco scioccato da questo evento. Non furono i soli che vidi morire. I dannati sacchi apparvero altre volte e per persone più giovani di me.                                           

                                             4-Respirare in totale autonomia, le dimissioni

 Dopo parecchi giorni, un medico mi disse: “oggi ti togliamo la tracheale”, così puoi iniziare a mangiare da solo ed al mio “quando?” rispose che mi avrebbe avvertito un’ora prima.

Non andò così perché dopo 10 minuti si presentò, dicendo che aveva anticipato i tempi per non alimentare la mia ansia. Mi spiegò esattamente cosa avrebbe fatto e l’importante per il paziente era  di non farsi prendere dal panico, cercare di stare tranquillo anche se,  per qualche secondo, avrei avuto la sensazione di non riuscire a respirare.

Andò tutto bene, così che da quel momento riacquistai, oltre alla capacità di respirare in autonomia, anche quella di alimentarmi a piccole dosi e gradualmente da solo, a parlare ma soprattutto smisi di fare i bisogni a letto, perché mi abituai sulla “comoda”. Per me questa fu una grande conquista, non dover più dipendere dalle infermiere per i bisogni personali che vivevo ormai come una grande umiliazione, perché le infermiere erano spesso giovani.

I Medici iniziarono a parlare di dimissioni, ovviamente io chiesi esattamente quale fosse il giorno ma la risposta fu scoraggiante: “Non possiamo dimetterti dalla terapia intensiva senza avere la certezza di un posto per te in un reparto di fisioterapia per la riabilitazione, il tuo percorso non è ancora terminato, devi avere pazienza ed aspettare. Al momento non risultano posti liberi.” La degenza mi aveva procurato un dimagrimento di circa 15 kg, non mi reggevo in piedi ed ero seriamente provato dall’esperienza, anche se tutti intorno mi dicevano che ero stato fortunato, pochi arrivati nelle mie condizioni riuscivano a sopravvivere . Io un sopravvissuto lo ero ma dovevo aspettare che si liberasse un posto per riabilitarmi.

Ricordo una sera che arrivò il medico con la sua assistente e mi disse: “Ora faremo insieme una camminata qui nel reparto si intende” Camminammo infatti per circa 50 metri, poi disse di tornare a letto ma che ci saremmo visti la mattina successiva.

Passai una notte terribile, sapere di poter finalmente essere dimesso ma non poterlo fare per un vincolo oggettivo, un posto letto in un struttura che, come si esprimevano loro, era “pulita, cioè senza Covid”, non era disponibile pertanto mi chiedevo, ma quando ci sarà , forse dovrò rimanere qui ancora per molto. Immaginavo anche il peggio: per sempre.

Il mattino successivo ricevo una telefonata da mia moglie che mi disse “Ti mandano a casa. Silenzio da parte mia per la grande commozione. Infatti subito dopo arriva il medico che conferma la meravigliosa notizia.

“Virginio passerai alla storia come il primo paziente dimesso direttamente dalla terapia intensiva al domicilio, forse abbiamo aperto una nuova strada.”

L’emergenza Covid era tale in quei giorni di grande affollamento nei Pronto Soccorso soprattutto lombardi che c’era necessità di letti in quegli ospedali definiti presidi Covid ed anche nei successivi reparti riabilitativi e questo ha sicuramente  aiutato i medici ad accettare che, nel mio caso , fossi seguito a casa da un fisioterapista.

Questo lo devo a mia moglie che ha dimostrato, oltre all’affetto per me anche delle capacità organizzative notevoli. Ha preso contatti con l’Istituto Golgi di Abbiategrasso per avere un fisioterapista idoneo ai post-covid che ogni giorno arrivasse al nostro domicilio per la mia riabilitazione ma anche relazionasse ai medici dell’ospedale Fiera i miglioramenti nel corso della terapia.

E’ significativo leggere quanto scritto dal primario del reparto dove ero stato curato in terapia intensiva.

“Paziente guarito da Covid ma non più compatibile con la terapia intensiva per rischio delirium, dimesso al domicilio con la raccomandazione di essere seguito 24 ore su 24.

                                                                     5-Dimesso al domicilio

Il 21 dicembre, esattamente un mese dopo il ricovero venni dimesso.                                                                    Dopo tutti quei giorni passati prevalentemente in un letto, lavato con fazzoletti detergenti, mia moglie mise nel vano doccia una sedia per potermi lavare  Non si può descrivere il benessere che provai nel veder scorrere l’acqua, sul mio corpo così duramente messo alla prova. Penso di essere rimasto in doccia circa un’ora.                La prima notte dormii come un angioletto, ma fu solo la prima perchè quelle successive non riuscivo neanche a rilassarmi per gli incubi, la terapia intensiva come ho cercato di descrivere, mi aveva completamente destabilizzato dal punto di vista psicologico.

Le giornate trascorrevano, facendo fisioterapia, vedendo parenti ed amici  ma le notti erano lunghe quando il sonno è disturbato. Con l’aiuto di mia moglie ma anche con molta pazienza da parte mia, piano piano sentivo di aver superato il periodo peggiore, cominciai con molta cautela, il mio lavoro. Cominciai a capire le parole del medico quando venni dimesso. La tua storia è talmente singolare che potremmo usare come esempio quello dell’incidente aereo, dove tutti muoiono, tranne una persona. Quella persona sei tu. Devi imparare a vivere da sopravvissuto e soprattutto forse hai una missione da compiere nella tua vita. Buona fortuna.

Vera la prima parte, chi arrivava nelle miei condizioni, come mi era stato detto varie volte, difficilmente riusciva ad uscirne vivo, io ero davvero un sopravvissuto. Circa la missione da compiere penso sia un’espressione che viene usata dai medici davanti ad una guarigione così imprevista. Missione a parte, di una cosa sono sicuro sono diventato una persona diversa, molto più consapevole della “ricchezza affettiva” che ho intorno: mia moglie ma anche tutti  coloro che gravitano intorno alla nostra coppia, fratelli, sorelle di mia moglie, nipoti : Quanto siano importanti le relazioni sociali ed anche tutti gli atteggiamenti e comportamenti legati ad esse, un saluto, un abbraccio, la stretta di mano, un bacio. Quanto manca il contatto umano quando ti senti in una bolla impermeabile a tutto; nell’acquario, come ho descritto in precedenza. Diamo sempre per scontato tutto, dal sole che sorge al mattino al tramonto che chiude le nostre giornate, ma prima non mi soffermavo a guardare la luce diversa del cielo all’alba rispetto al tramonto, ora mi capita di pensare, finisce il giorno ed io posso ancora vedere ed apprezzare le mie giornate.

Sono decisamente più propenso a non arrabbiarmi per motivi futili ma soprattutto sono diventato autocritico, disposto a riconoscere i miei sbagli, perché un tempo, per motivi di orgoglio, ero un po’ rigido nelle mie posizioni e questo  mi ha allontanato da amici. Sono più propenso al perdono, per gli sbagli degli altri e decisamente più disposto ad ammettere i miei errori ed a chiedere scusa.

Quante volte, prima di questo MIO COVID, non  ho chiesto scusa mentre ora sono più che convinto che ne valga davvero la pena!

                                                                                                                              Virginio Carraro