Mo’ basta, mo’ basta. Lo aveva scritto Erri De Luca nel suo romanzo “Il giorno prima della felicità”.
Sì, mo’ basta!
Dobbiamo dirlo con forza anche noi adesso.
L’emergenza sanitaria che ci ha chiusi in casa sta evidenziando quel discrimine nord-sud che da 150 anni è presente nel nostro paese in maniera più o meno latente, più o meno palese. I media nazionali, e non solo Mediaset ma quel che è grave la TV di Stato, mostrano puntualmente due distinti parametri nel parlare delle due parti della penisola.
I riferimenti al sud, se si escludono i telegiornali regionali, sono troppo spesso superficiali, riduttivi, quando non falsati o offensivi. In sintesi, in Campania, in Sicilia, in Puglia, in Calabria le persone sono disobbedienti, incoscienti, vacue, oppure delinquono, punto. Nei vari programmi ci si sofferma, scandalizzati, su notizie, talvolta gonfiate, di violenze, assalti ai supermercati, furti di sacchetti della spesa. La povertà che attanaglia tante famiglie la cui economia era già precaria è raccontata quasi con toni di folclore o di disprezzo o di altezzoso distacco.
Non si parla, se non di sfuggita, della tenace disciplina con cui si cerca qui da noi di resistere in questo isolamento, degli sforzi immani degli amministratori locali dei piccoli e grandi centri, della solidarietà che si apre verso chi è solo e verso chi non ha.
Si esaltano e si ringraziano a giusta ragione i sanitari delle regioni settentrionali fortemente colpite, troppi dei quali hanno perso la vita, ma si parla poco dei medici e paramedici che al sud lavorano con buoni risultati e scarsità di presidi e, quando se ne parla, è per minimizzare il loro lavoro o addirittura per screditarli.

E mo’ basta!
È storia vecchia, purtroppo. L’unità d’Italia non si è mai veramente realizzata secondo gli ideali e le speranze dei liberali, molti erano meridionali, che ci hanno creduto e si sono sacrificati. La retorica post-risorgimentale ha esaltato l’annessione del sud come liberazione e riscatto dall’arretratezza, veicolando un’immagine lombrosiana di regioni deterministicamente sottosviluppate, dominate da miseria, analfabetismo e malavita.
Sulla “questione meridionale” si sono riempite pagine e pagine, ma nulla è stato risolto sebbene fin dall’inizio siano andati al Governo tanti illustri meridionali. Come si spiega che non siano stati capaci di impedire che il divario nord-sud si ampliasse sempre più? Perché generazione dietro generazione i politici del sud hanno assecondato questo andazzo? Per mancanza di coraggio? Per incapacità? Per incuria? Per interesse personale? Per brama di potere?
Le voci di revisionismo storico sono state zittite come sciocche, anacronistiche e neoborboniche, le proteste ancora oggi tacciate di fastidioso vittimismo.
E tutto il sud perché ha subito in silenzio? Per il senso di colpa che ci faceva vergognare della pessima reputazione che oramai ci aveva bollati a causa della presenza delle mafie? Per un sottile senso di inferiorità che hanno cercato di inculcarci per farci sentire indolenti, inetti e sfaticati: la “palla al piede del nord”, accusandoci di assistenzialismo ai danni delle regioni produttive?

Eppure si sa che un perverso disegno politico ha determinato la spoliazione dell’intero sistema sanitario nazionale e soprattutto della sanità delle Regioni meridionali a favore delle strutture mediche private del nord. Secondo Gino Strada a proposito dell’attuale crisi epidemiologica: “Nelle regioni in cui si è investito nella sanità privata e si è disinvestito nella sanità pubblica ci troviamo di fronte anche alla mortalità più alta.”
Quel che è certo che nel 2016 è stato smantellato il nucleo di epidemiologia e sorveglianza che oggi sarebbe stato fondamentale.
Anche con la connivenza della sinistra o quantomeno con l’indifferenza, dal 2000 al 2017 tanti miliardi pubblici sono stati dirottati dal sud al centro-nord. Quel mare di danaro è stato all’origine di scandali, corruzioni, appropriazioni indebite.
Milioni di meridionali, intanto, sono stati indotti a dolenti e costosi viaggi della speranza per curarsi nelle cliniche appartenenti agli industriali del Nord. La fama di quella grande moderna ed efficiente organizzazione sanitaria che noi poveri reietti al sud non ci potevamo permettere, di fronte alla presente calamità non ha retto, mostrando tutte le sue zone d’ombra.

Siamo tutti Italiani e tante morti e tante sofferenze in quelle regioni ci turbano e ci addolorano. I cortei di camion militari con i feretri che avanzano verso i cimiteri ci commuovono. Ma certi atteggiamenti stupidamente razzisti e offensivi ci hanno stancato.
Mo’ basta!
Siamo tutti Italiani e non miriamo a secessionismi nei confronti del nord, come dice qualcuno, né vogliamo elemosine. Non condividiamo esternazioni sopra le righe sui social di abitanti del sud, cariche di turpiloqui rabbiosi, sono controproducenti. Non ci interessa la gara a chi arriva prima nello studio di farmaci, vaccini e sperimentazioni, ma auspichiamo che le varie strutture lavorino collaborando tra di loro, socializzando i risultati e valorizzando i contributi, da qualunque parte giungano. Non vogliamo più un paese a due velocità.

Vogliamo invece che a emergenza conclusa l’Unità d’Italia si realizzi finalmente in termini paritari. Vogliamo una maggiore giustizia sociale, sanità pubblica con contributi statali equamente ripartiti e solidarietà reciproca.
Vogliamo non subire più ingiusti comportamenti e beceri campanilismi.
Vogliamo rispetto per le nostre terre e per le persone che vi abitano.
E dato che, come diceva De Crescenzo, “Si è sempre meridionali di qualcuno”, l’Italia e il suo nord ricco e produttivo: “la locomotiva del paese”, che ora teme anche il morso della crisi economica, sente quanto sia lesivo e mortificante nell’ambito dell’Europa Unita lo spartiacque creato ed egoisticamente difeso dalle nazioni più ricche, ma forse anche lì qualcosa potrebbe cambiare.

Yvonne Carbonaro