In un giorno qualsiasi tra metà marzo e inizio maggio del 2020

Una pistola puntata alla testa fa sempre una certa impressione. Tecnicamente so che è solo un rilevatore di temperatura per guadagnare l’ingresso al Superò, ma ogni volta che la guardia bardata me la armeggia contro mi sale la tensione alle tempie. Lui, invece, quasi se ne bea. Tuta bianca da visita chirurgica in ospedali sgarrupati, visiera trasparente con effetto spaziale, guanti neri da chef contemporaneo, la guardia dà ordini netti a chi deve entrare nel supermercato e intanto osserva la fila con occhio militare. Una fila diligente e ordinata, da commuoversi. Potere della paura.

E lì in fila ci sono anche io. Sono sceso per noia e per prendere l’olio extravergine d’oliva. Comprerò anche qualcos’altro, a lunga conservazione e di poco ingombro, giusto per avere un alibi più solido se mi dovessero fermare per un controllo nel breve tragitto verso casa.

La signora avanti a me si avvia e non guarda neanche una volta le istruzioni impartite dal nostro. Precisa, veloce, completa il Triathlon per la qualificazione all’ingresso in poco meno di otto secondi netti. Da medagliere. La guardia le sorride per circostanza, poi si volta e affiora una leggera smorfia di fastidio. L’autosufficienza, algida nemica dell’autorità.

Decido in quel momento. Appena è il mio turno, mi avvio come per entrare direttamente. La guardia si impettisce e con l’indice teso mi taglia l’aria da spalla a spalla, indicandomi la colonnina con l’antibatterico. Poi mima pedissequamente la pulizia delle mani, come da tutorial dispensato dalla conduttrice luminosa del pomeriggio televisivo. Non aspettava altro. Allora prendo i guanti di plastica e fingo di non riuscire ad aprirli. Poi uno glielo cedo, l’altro lo apro io ma ci metto molto più tempo di lui, ovviamente.

Dietro la visiera il compiacimento dura un attimo, poi l’occhio ha una scintilla come nei western, impugna l’arma e mi fa cenno di avanzare di un passo. È l’ora. Punta la pistola alla mia testa;  passa un breve, interminabile tempo. Segue un debole cenno di assenso: check-in passato, via agli acquisti.

Supero il reparto frutta e verdura di slancio, il frigo è già pieno e la deperibilità è alta. Mi accerto che gli scaffali siano ricolmi ovunque; temo le rotture di stock come segnale dell’inizio della fine. Che poi, in verità, a parte il lievito per un breve periodo, non è mai mancato nulla. È proprio una piccola psicosi, ecco.

Raggiungo lo scaffale per prendere il riso venere. No, non è per me, non lo avrei mai scelto io. Resta duro, non può mantecarsi, perché comprarlo? Forse perché è così chic: nero, sfilato, con quel senso di antico. In verità è un incrocio tra due qualità di riso, realizzato per la prima volta a Vercelli, nel 1997. Il successo pare dovuto più a un nome suggestivo e alla capacità di evocare pretesi effetti afrodisiaci che altro. Potere del marketing.

Esco da questi pensieri per via della voce di una signora tozza che chiede di passare, che va di fretta, che è la mezza e deve tornare a casa a cucinare.

Realizzo improvvisamente quanto sia tardi pure per me.  Solo da Milano potevano programmare una “call” in quel delicato momento che sta tra la fine del pranzo feriale e l’inizio della controra. Alle due del pomeriggio. Mi sono dovuto adeguare. Potere contrattuale.

Imbusto, pago e corro verso casa. Disinfettazione delle  mani, svestizione, lavaggio clinico degli acquisti, e vestizione da call. Solo allora me ne rendo conto. L’olio, l’olio extravergine di oliva, l’unico cosa che mi serviva, non c’è, l’ho completamente scordato. Un inzallanuto, direbbe mia nonna. Potere della sintesi.