Nel cuore dell’Appennino, dove i paesi sembrano ancora parlare con le pietre e con l’acqua, Alessio Torino ambienta il suo nuovo romanzo, Il palio delle rane (Mondadori). A Luceoli, minuscolo borgo sospeso tra tradizione e invenzione, la vita ruota attorno a un rito collettivo: la corsa delle rane. È una festa che mescola religione popolare e superstizione, un carnevale di carri, banchetti e maschere in cui ogni anno si rinnova la devozione verso il piccolo anfibio che dà il titolo al libro. Ma dietro la leggerezza della sagra si nasconde un mondo più profondo, un universo di segreti, nomi taciuti e sentimenti che chiedono ascolto.

A prendersi cura delle rane, con la dedizione di chi compie un atto sacro, è Raniera, la “Gran Custode del Palio”. È lei la protagonista del romanzo, una figura fragile e luminosa insieme, cresciuta ai margini di una comunità che l’ha accolta e, allo stesso tempo, confinata nel ruolo che le ha assegnato. Raniera osserva, accudisce, obbedisce. Vive immersa nella routine del paese, nel ritmo delle stagioni e nella lingua del silenzio. Finché nella sua vita non arriva Das Lubbert, misterioso “fratello delle rane”, destinato a incrinare le certezze del borgo e a svelare la frattura tra la favola raccontata e la realtà vissuta.

Il palio, che fino a quel momento sembrava solo un gioco o una tradizione pittoresca, si trasforma in un rito arcaico, quasi tribale, dove la festa popolare diventa teatro delle contraddizioni umane. Sotto le risate e i brindisi si avverte la tensione di un mondo chiuso, che teme il cambiamento e si difende con le proprie abitudini. L’autore non giudica, ma osserva con pietà e precisione, costruendo un piccolo affresco dell’entroterra italiano, quello che resiste e si ripiega su sé stesso; quello fatto di consuetudini, soprannomi e silenzi. Ogni abitante di Luceoli è definito da un appellativo che lo riduce a funzione, come se solo così potesse far parte della comunità. È una poetica del margine e dell’appartenenza, dove anche la lingua sembra cercare la propria identità.

La scrittura di Torino ha il ritmo di una ballata: procede per immagini brevi, versi spezzati, rime interne che danno voce a una lingua antica e nuova insieme. È un romanzo che si legge come una fiaba crudele e dolcissima, popolata di rane, ragni, topi e “cicale cinesi”, dove l’elemento naturale diventa specchio delle passioni umane. L’autore costruisce un bestiario poetico che racconta la condizione dell’uomo contemporaneo con la semplicità apparente del mito.

La natura, in Torino, non è mai sfondo ma protagonista. Tutto accade dentro un ciclo di stagioni e metamorfosi che ricordano al lettore la propria animalità, la propria appartenenza a un tempo che non è lineare ma circolare. Così, mentre la comunità si prepara al palio, l’autore ci mostra la tensione tra innocenza e crudeltà, tra il bisogno di appartenere e la paura di cambiare. Il romanzo diventa una riflessione sul significato del rito: cosa accade quando la tradizione smette di unire e inizia a escludere? Quando la festa diventa gabbia, e la favola svela la propria ferita?

Raniera, con la sua purezza e il suo smarrimento, attraversa questo confine. È lei a incarnare la possibilità di uno sguardo diverso, capace di vedere oltre la corsa e i banchetti, oltre i soprannomi. La sua storia è quella di una coscienza che si sveglia, di un cuore semplice che scopre la complessità del mondo. Il palio delle rane è un romanzo che unisce la dolcezza del mito alla precisione del reale, un libro che racconta come la vita, a volte, assomigli a una rana sul bordo dell’acqua: pronta a saltare, ma incerta su dove cadere.

Mauro Galliano