Se ne è andato questa mattina a Oviedo lo scrittore cileno Luis Sepùlveda, tra le tante persone vicine, lontane, tra le cose, i pezzi di vita, che il Coronavirus ci ha portato via così all’improvviso senza che nessuno potesse sentirsi davvero preparato.
Per Napoli il lutto è doppio, ma non vale forse mai la pena di quantificarlo il dolore ricorrendo a categorie strettamente matematiche, meglio dire più profondo.
Alla perdita si aggiunge il rammarico di un appuntamento mancato della nostra città con lo scrittore. Luis Sepùlveda doveva essere, l’annuncio era stato dato circa due mesi fa, l’ospite d’eccezione di Napoli Città Libro 2020, se il Covid 19 non avesse cambiato di colpo l’agenda delle nostre vite, costringendoci a una rimodulazione di gerarchie e abitudini .
Anche quello che si preannunciava come il più grande evento librario del Sud è stato cancellato e poi rinviato a ottobre. Ma a ottobre il nostro amico, lo scrittore esule, il guerrigliero dal sorriso sornione, gentile e aggraziato come le sue storie, non ci sarà.
Non sempre la vita ci offre una seconda occasione, questo ormai dovremmo averlo imparato.
Da questa mattina scorre nel flusso di notizie il corteo rumoroso delle voci di quanti hanno di lui e delle sue storie un ricordo tangibile e presente.
Scorre sul web l’immagine di chi è stato per tanti l’amico, l’attivista, il militante, non solo lo scrittore, lo sceneggiatore, il poeta. Ognuno aggiunge un nome all’impressione vivida e bonaria che ha di lui, ognuno conserva un affetto verace. Perché Luis era così: affettuoso presente ma anche serio e profondo.
Come si vive in esilio lo raccontò nel 2015, per accenni, con riferimenti puntuali mai rancorosi, alle circa trecento persone riunite per lui nella Sala Verde del Salone del libro di Torino.
Così raccontò pure di come un giorno, in una tavola calda con i suoi figli, si trovò ad aprire uno dei libri assegnati loro dalla maestra. I bambini si annoiavano e lui voleva capire come fosse possibile che il mondo delle storie potesse apparire così respingente alla loro fantasia. Dopo poche righe, lette a fatica, sbottò: ”Ma questo non è un libro per bambini, questo è un libro per cretini”. Decise così di scrivere lui una storia per i suoi figli.
Fu questo il suo esordio nella letteratura per l’infanzia. Un terreno impervio, come spiegò col suo tono pacato e accattivante, perché l’errore più frequente, quando si racconta una storia ai bambini, è ricorrere alla semplificazione, credendoli incapaci di comprendere le questioni più complesse che loro, più degli adulti, sanno intendere, sintonizzandosi in modo quasi naturale e istintivo su temi universali.
Un grosso applauso e qualche risata. Perché lui era un vero cantastorie anche quando raccontava aneddoti e pezzi della sua vita.
Sgusciò via, eludendo la sicurezza, per essere libero di autografare i suoi libri per i lettori che lo attendevano sulle scale del Lingotto Fiera sotto il sole cocente di maggio. Né l’asfalto rovente e il riverbero del sole sulle porte d’accesso poterono scoraggiarlo, né il fastidio degli organizzatori impegnati a disciplinare ingressi e uscite delle migliaia di visitatori, né la stanchezza. In piedi, col suo panama e una maglietta di cotone bianca sotto una giacca color canapa, continuò a sorridere e a firmare copie, concedendo a ciascuno, in quella fila ordinata, qualche secondo per un scambio veloce di umanità affettuosa.
Da quell’incontro non portammo via solo un libro, ma una confidenza nuova e la sua amicizia.
Ho cercato quel libro “Tutti i racconti”, mi è venuto incontro senza troppa fatica, la copertina rossa, la tua mano sul foglio “A Vincenza” la parola successiva è poco chiara, scrivi forse “cordialmente” e la tua firma.
Parlammo brevemente della storia di quel gabbiano intrappolato dal petrolio e della gabbianella, sua figlia, allevata dai gatti che impara a volare grazie a un poeta. Ti chiederei adesso di insegnarci a librarci verso quello stesso cielo.
Vincenza Alfano