Come accade ormai puntualmente ogni anno all’approssimarsi del “giorno della memoria”, istituito per ricordare l’orrore della “shoah” (olocausto, sterminio di sei milioni di ebrei), grande risonanza mediatica, fiorire di pubblicazioni, ma anche il ritorno di perplessità e limiti.
Può forse impressionare, ad esempio, la denunzia di un invalso feticismo della memoria il cui risultato sarebbe quello di avere, paradossalmente, prodotto una diffusa e sconcertante amnesia della memoria collettiva. E però, si può dare torto a chi sottolinea (De Cesare e Goldkorn, su “l’Espresso” del 19 gennaio scorso) che non ha molto senso dire “mai più” e poi vendere armi che uccidono, fare la guerra, negare i diritti ai rifugiati? O ancora, contestare la Zevi quando esorta a deporre la compassione, e sfruttare piuttosto l’occasione per guardare il passato, la storia del Novecento e i suoi orrori, convenendo che si tratti di una storia che riguarda ciascuno per se stesso e che è imprescindibile dalla propria identità collettiva?
Proviamo, insomma, a tenere ben presente e fisso nella testa e nel cuore, che il Giorno della memoria figura non a caso in cima a quel “calendario civile”, l’insieme delle ricorrenze che scandiscono nel corso dell’anno le tappe del percorso di costruzione di una memoria comune, laica, popolare e democratica, degli italiani, di tutti noi, in ogni punto della penisola, nel nome delle idee fondative dell’identità repubblicana nazionale.
Esercitiamo in qualche modo la facoltà e il diritto di rintracciare quei fili che dal passato si svolgono fino ai gironi nostri, e che in questo caso ci consentono di rintracciare l’aberrante fondamento ideologico della “lotta contro l’ebreo, contro lo slavo, contro le razze inferiori” (F. Soverina), alla base del disegno della Germania nazista nel secondo conflitto mondiale volto a fondare una rigida gerarchia razziale fra i popoli ed asservire uomini e risorse all’elite ariana. Ma anche di accorgerci a quando risale indietro nel tempo la persecuzione contro gli ebrei, come l’antisemitismo abbia attraversato la storia dell’umanità, sicché alla fine la Shoah stessa, la tragedia dello sterminio nazista, un ˈunicumˈ nella galleria degli orrori del secolo XX , getta la sua vivida luce su tutta l’età contemporanea avendo alle spalle un’esperienza atroce, quanto sistematica, dell’annientamento e della eliminazione del ˈdiversoˈ. Entità costruita prima, ed utilizzata poi, in maniera funzionale a rafforzare il “noi” contro “loro”, a radicare l’idea della superiorità di razza e di condizione attraverso lo scontro, il contrasto oppressivo e la violenza nei confronti dell’altro.
E giacché ci siamo, proviamo a non dimenticare che l’Italia fascista è stata alleata della Germania nazista (almeno fino al 1943) e concretamente, attiva promotrice della propria crociata contro gli ebrei, attraverso l’obbrobrio delle leggi razziali promulgate nel 1938 (come pure non si è mancato di avvertire in occasione del recente ottantesimo anniversario). Il che vuol dire che il nostro paese è stato parte in causa, in maniera consapevole e compiuta, nella persecuzione di circa 50mila ebrei residenti in Italia, dei quali oltre 37mila propriamente ebrei italiani. A più che giusta ragione, tutto questo viene ricordato ed esecrato nella legge istitutiva del Giorno della Memoria, varata nel 2000 ed in cui ci si collega alla data del 27 gennaio (1945) in cui sono stati abbattuti i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz dai soldati a cavallo dell’Armata Rossa. È bene quindi che di questo si parli e che si considerino i tanti esempi di bambini e bambine italiani, ma anche di giovani e adulti del tempo, sopravvissuti all’esperienza terribile dei lager e che sono stati in grado di raccontare ciò che hanno visto e vissuto, contribuendo così a “costruire memoria”, ad aiutarci a sperimentare se e come “la memoria rende liberi” (si pensi a straordinari protagonisti -testimoni, quali Liliana Segre e Primo Levi, entrambi “discesi agli inferi” e poi risaliti verso la vita, sebbene con esiti assai diversi l’una rispetto all’altro).
E in tema di leggi razziali e successiva deportazione non mancano esempi riguardanti la nostra città e l’ambiente napoletano, a sfatare clamorosamente, se ce ne fosse ancora bisogno, i luoghi comuni degli italiani «brava gente» e dei napoletani per antica tradizione ospitali, accoglienti, per natura inclini alla partenopea bonomia. Risale a pochi giorni fa la pubblicazione della raccolta di memorie di Alberto Defez( a cura di Suzana Glavas, ed. La Mongolfiera), bloccato nella sua carriera scolastica dalle leggi del 1938; più tardi, partecipante alle Quattro giornate di Napoli e successivamente arruolatosi nel corpo militare di spedizione a fianco degli Alleati (anglo-americani).
Alla sua morte, nel 2014, ricordato, tra l’altro, come esponente di spicco della comunità ebraico napoletana.
Nelle sue memorie…
emerge il ricordo dell’essersi sentito, ed essere stato percepito, ancor prima del 1938, come “diverso”, in quanto ebreo, di altra religione e cultura, benché di famiglia solidamente radicata nel tessuto sociale ed economico, napoletano ed italiano. Di altro bambino napoletano, ed ebreo, Sergio De Simone, finito tragicamente nelle mani dei nazisti, a Fiume, e barbaramente ucciso per mano dei medici del lager che ne usavano il corpo per atroci esperimenti, la memoria è emersa da qualche decennio. Finalmente ricostruita ed onorata dalla mostra “L’ebreo come diverso” dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza, da varie iniziative a cura del Comune di Napoli, da libri e dall’amorosa attenzione dedicatagli dal fratello Mario.
Ed al Comune è stata altresì a cuore la rimozione di targhe stradali malamente intitolate a protagonisti negativi e la loro sostituzione con altre dedicate invece e giustamente alle vittime innocenti. Ancora, di recente, alcune “pietre di inciampo” a ricordo ed a sollecitazione di memoria di ebrei della nostra città, posate sul pavimento di un marciapiede di piazza Bovio, antistante il palazzo in cui abitavano. Si tratta di segnali importanti, da cogliere e sviluppare nel nome della libertà e della democrazia, della necessità di tenere alta la guardia sui rischi che proprio ai nostri giorni stiamo correndo di una ripresa di mentalità e comportamenti improntati all’insofferenza, all’intolleranza, fino all’odio, nei confronti del “diverso”. Quest’ultimo identificato, se non più tanto o solo nell’ebreo, fin troppo spesso nel migrante, nelle donne, nei disabili, negli zingari, negli omosessuali, negli islamici: in una spirale che avvolge e confonde e che si diffonde, pericolosamente contagiosa.
È in effetti partita proprio dalla riflessione pubblica sull’anniversario (80°) della promulgazione delle leggi razziali in Italia, come si è già accennato, varate nel 1938, una serie di considerazioni riconducibili all’«imperativo di ricordare», o, se si vuole, all’impegno della “memoria contro l’ignoranza”, ovviamente il tutto riferibile anche al tema della Shoah più in generale. A quest’ultimo proposito, tra l’altro, è stato opportunamente richiamato lo stereotipo stucchevole degli “italiani brava gente” che a mala pena si utilizza per oscurare l’indulgenza degli italiani nei riguardi della propria storia (si pensi ai conti mai fatti sul serio con il fascismo nostrano).
Si è pensato sul serio agli intrecci tra razzismo coloniale e antisemitismo, alla assimilazione degli ebrei alla massoneria e al bolscevismo, o, ancora, alla relazione intenzionalmente costruita e propagandata dal fascismo e dalla Repubblica Sociale Italiana tra la definita « minacciapluto?- giudaica-massonica» e sentimenti anti-americani?
Insomma, vige….
o nulla memoria, e tanta ignoranza, al punto da essere indotti a credere che l’una e l’altra siano perseguite e favorite da un potere che ha paura di chi combatte contro l’una e l’altra. D’altronde, occorre pure che ci si convinca della natura etico-civile della memoria e del suo riferirsi non solo, o non tanto, al campo dei doveri quanto a quello dei diritti. La memoria come diritto e memoria che nel processo della sua trasmissione, ha essa stessa i suoi diritti; e memoria che ha relazione, più ancora che con il passato, con il presente e con il futuro. In altri termini, una memoria attualizzata, proposta e vissuta come “progetto”, come veicolo e indicatore di prospettive con cui riempire di senso e di obiettivi la vita, o la parte di vita, che è ancora davanti a ciascuno di noi. Ne scaturisce ancora il dovere di sviluppare teoria e prassi del “fare cultura”, nel senso di cultura della e per la memoria, aperta, viva e proiettata verso il futuro, ma ancorata al passato. Ha proprio ragione, in proposito, il grande Italo Calvino nel dire che “la memoria conta veramente solo se tiene insieme l’impronta del presente e il progetto del futuro; se permette di fare senza dimenticare quel che si voleva fare; di diventare senza smettere di essere, di essere senza smetter di diventare”.
Guido D’Agostino, presidente Istituto Campano per la Storia della Resistenza