La pandemia di Covid-19 è stata un’esperienza straordinaria che cambierà per sempre le nostre vite e tanti aspetti della “quotidianità di prima”, fatta di una prossimità che ancora oggi, a tre mesi e più dal primo contagio italiano, risulta impraticabile.

Da medico ho compreso dall’inizio che questo tipo di virus non era un “nemico comune” ma subdolo, con sintomi da lievi a gravissimi, in grado di portare via la gente (specie gli anziani), per problemi respiratori gravi.
In tutta Italia vi è stata una “mattanza” di camici bianchi, medici, infermieri, ostetriche, farmacisti…

154 medici, ad oggi.

Emotivamente coinvolta, ho cercato le loro storie, i nomi, i volti. Alcuni erano già in pensione, potevano starsene tranquilli a casa, dopo anni di lavoro …e invece avevano deciso di non arretrare, di mettersi al servizio dei pazienti.

Sono entrata in un gruppo Facebook composto da soli medici e mi sono confrontata con molti di loro, anche ricoverati nelle rianimazioni, lucidi, attenti alle terapie, per loro ma soprattutto per i pazienti, terapie che condividevano con i colleghi, per aiutarli a capire cosa usare in relazione ai sintomi, allo stadio clinico. Qualcuno scriveva “sono peggiorato, penso mi dovranno intubare…” e dopo solo due o tre giorni non arrivavano più sue parole.
Se ne era andato in silenzio, senza rivedere i suoi cari, avvolto in un telo di plastica, senza funerale.

Capivo. Provando ogni volta un nuovo dolore.

Uno di loro è diventato mio amico di FB. Un giovane collega di 40 anni, anche lui malato, col quale abbiamo dialogato via post. Condivideva, raccontava come si sentiva, incitava chi leggeva a ragionare su quello che ci diceva.

Lui ce l’ha fatta. Ora il suo sorriso è tra le foto dei miei amici social, ci sentiamo e, visto che vive al Nord, al momento non possiamo incontrarci. Ma lo aspetto per una pizza a Napoli quando vorrà. E quando si potrà.

Anche io ho rischiato di ammalarmi. Per lavoro ho avuto contatti con due colleghi positivi al virus che hanno avuto bisogno di cure abbastanza impegnative. Ho fatto indagine, in base all’anamnesi e per un concomitante rialzo febbrile. Quel 18 marzo, dopo il tampone (doloroso, peraltro), mi relegai in un angolo della casa, sbarrai l’accesso e impedii per 4 giorni, fino alla risposta negativa del test, ogni vicinanza da parte dei miei cari. Mia madre mi telefonava per chiedermi la temperatura e di cosa avessi bisogno…la sua voce tradiva l’ansia.

Alla fine riemersi dal “baratro” e tornai serena al lavoro, mentre il numero dei morti, tra i colleghi, saliva. In quei giorni l’unico raggio di sole parve il protocollo sperimentale del Prof. Ascierto, che da uno studio oggi avviato, si è rivelato risolutivo nel 75% dei casi. E rimanemmo abbagliati, nello stesso periodo, dall’apprendere che la Sanità Campana aveva un’eccellenza mondiale in ambito sanitario: il Cotugno.

Ho voluto chiedere per iscritto a Papa Francesco di nominare Servi di Dio tutti i morti della Sanità che hanno lottato contro il COVID 19. Non so se leggerà mai la mia lettera.

Ma dovevo scriverla. Per quei morti non abbiamo potuto fare nulla, per quelle vite distrutte per “curare”.

Spero che qualcuno, in una Piazza, S. Pietro che abbiamo visto deserta in questa anomala Pasqua, legga i loro nomi. A voce alta e vibrante. Per le loro famiglie e per tutti quelli che hanno salvato.

Chi ha servito i malati ha servito Dio.

Nessuno merita più di loro di essere identificato con quell’appellativo. E confido che il nostro Papa, questo Papa, che obbedisce alle regole degli uomini, con l’umiltà dei grandi, lo renda possibile.