È domenica! Suoni da giorno di festa, però, dovrebbero arrivarmi dall’esterno.
Sollevo la testa dal cuscino ma non sento nulla. Ah, già, non sento più nulla, ormai.

Allora forse è sabato. Ma ogni sabato, prima, sentivo la signora Caterina, quella del piano terra, che spalmata sul davanzale, attaccava l’allegro rosario per il figlio minore: Aldoooo! Due litri di latte, un succo di frutta, un chilo di pane, un pacco di biscotti a gusto tuo e un barattolo di marmellata a gusto mio, fragola! Vai e torna subito. Io ti guardo dalla finestra. E fatti dare il resto, Aldoooo! Ma oggi Aldo non corre.

Sono le nove! No, sarà più tardi. Ma non sarà nemmeno il weekend, mi sa più di infrasettimanale. Mi alzo dal letto, con gli occhi ancora cisposi m’infilo i guanti in lattice e mi avvicino alla porta d’ingresso. Tutto tace: posso aprire. Il pacco è lì, nel punto esatto dove Luigi il portiere, con muto accordo, mi sistema le consegne. Un quadrato di 60×60, centimetro più centimetro meno, prima ignoto, ora nobilitato.
Prendo la scatola, rientro, la appoggio sul tavolo della cucina, la apro. Con perizia chirurgica, e con una flemma snervante per l’uomo che ero prima, mi avvio al cerimoniale: disinfetto con meticolosità ciascuna confezione delle provviste. Il solenne rito dello svuotamento della scatola, compreso disinfettare e sistemare, mi occupa tre quarti d’ora: minuto più minuto meno, un tempo di stupefacenti pensieri all’amuchina. Dopo mi sento meglio. Via i guanti, vado in bagno e lavo lavo lavo le mani. Le insapono, le intreccio, le massaggio, le strofino e m’incanto a vedere la schiuma che si forma, come quando ero piccolo ma di più, perché da piccolo mi
lavavo meno, le mani e tutto il resto.

E ora al pc! Secondo la scaletta, sono al terzo capitolo del mio sesto romanzo. I primi cinque non li ho pubblicati. Che senso ha pubblicare, se il numero di lettori cala senza pietà? Ma che senso ha scrivere, se nessuno ti legge? Nel dubbio, continuo a scrivere per me, come dicono i pavidi. In compenso, è così che mi salvo. Da tutto. E scrivo con metodo, assiduità, concentrazione, come se avessi un contratto con un editore…

Ma ecco che dei suoni incomprensibili mi distolgono. Scollo lo sguardo dal monitor.
Restio mi schiodo dalla sedia e mi avvicino al balcone, la fonte dei suoni: schiamazzi di gente per strada, risate, musica, grida. Tra i cori degli astanti, il ragionier Tornante, del quarto piano, solleva in una piroetta la vedova Santillo, del piano terra, la vicina della signora Caterina, mentre la professoressa Amati, del quinto piano della scala C, balla la pizzica con Luigi il portiere: una scena grottesca, se il grottesco non fosse superato dal raccapriccio. Apro i battenti, sollevo la zanzariera e nel subbuglio e nel trapestio generali, mi sembra di captare: Siamo finalmente liberi!

Inebetito, avverto un rivolo gelido dalle vertebre cervicali fino all’ultima sacrale. Le gambe sono legno. La testa gira vorticosamente. La gente mi appare come una bolla
scoppiata: solo puntini d’acqua colorata nell’etere. Il rivolo gelido diventa punta di spada infuocata, ora dall’osso sacro alla nuca.

Quando torno a vedere più nitidamente, davanti ai miei occhi ci sono pazzi liberati, squilibrati rilasciati. Giro su me stesso, calo la zanzariera, serro il balcone, abbasso le
tapparelle. A fatica riconquisto la mia postazione davanti al computer. E subito la calma mi avvolge. Riprendo a scrivere. Non è accaduto nulla. Devo finire il mio sesto romanzo. Il sesto da non pubblicare. Ho una scadenza da rispettare.