La stanza si è ristretta, il letto è piccolo, spariti libri e fotografie, solo una foto di mia madre, alle pareti l’immagine della Madonna.
Apro l’anta dell’armadio,e trovo un water, apro il balcone, la persiana è bloccata, sul comodino lo Xanax.
Sono le 5, mi alzo, faccio il caffè, è buio, le sigarette sono al loro posto.
Da quando è iniziato tutto ricordo i sogni, prima mi restavano in testa pochi secondi poi si dissolvevano con la velocità con cui si brucia una pellicola, li stai guardando e puff, dopo un secondo non ci sono più.
Da quando è iniziato tutto mi sveglio presto e non so mai che giorno è, come fosse sempre domenica, una serie interminabile di domeniche tutte uguali.
Sparito il venerdì e le mie amiche del venerdì, sparite come i sogni in tempi normali, una privazione che mi pesa.
L’ultimo giorno che le ho viste è stato agli inizi di marzo, pioveva.
Arrivo al primo ingresso completamente bagnata, l’agente mi fa riempire un modulo, devo dichiarare di non essere ammalata.
Firmo senza fare domande, ho imparato a non perdere tempo nel chiedere spiegazioni, mi avvio alla seconda porta.
Al metal detector c’è uno simpatico che conosco da anni, mi chiede se ho firmato e mi dice che anche il direttore e gli agenti se non firmano non entrano.
A pensarci, la mia prima autocertificazione è stata per entrare, non per uscire.
Le agenti stanno con le facce incollate alla tv, mi avvio al laboratorio, non sono così sicura di stare bene e neanche di aver frequentato solo persone in buona salute, nel corridoio mi copro la bocca con la sciarpa, entro.
In un carcere i tempi sono lunghi, le attese funzionali al luogo, non mi sono mai abituata, mi innervosisce aspettare.
Le ragazze arrivano un po’ per volta parlando a bassa voce.
Mi sono seduta dietro al tavolo come non faccio mai, potrebbe essere una buona distanza di sicurezza.
M. entra per prima, è la più anziana del gruppo, quella con più anni di galera, sa fare tutto, dalle pigotte agli abiti di carnevale. Sforna casatielli e meches per tutte, conosce il diritto penale come un avvocato.
Le voglio bene, non so le altre, ma è un punto di riferimento per tutte.
Non mi abbracciano, comprendono la distanza, spiego che potrei essere contagiosa, lo dico e rido e ridono tutte.
“Quando mai è successo che i pericolosi siete voi liberi, guarda un po’stò virus che combina? Noi cattivi ci dobbiamo difendere da voi bravi!” e così via, battute sull’argomento, mi accorgo che sono preoccupate.
M. dice che temono un blocco dei colloqui, A. risponde che non è possibile, basta mettere dei vetri, che in un giorno si può fare, che se li bloccano succede un casino, penso che ha ragione, possono farlo se vogliono. Non lo hanno fatto.
Qualcuna è preoccupata per i permessi, se salta tutto?
Cerco di tranquillizzarle, non credo si possano bloccare autorizzazioni già concesse. Lo hanno fatto.
Forse chiudono il laboratorio, dico che ho firmato la dichiarazione, che la prossima settimana userò una mascherina, non cambierà niente.
Di questo non sono sicura. Lo so io e lo sanno anche loro, ma non ce lo diciamo Dico a V. che lei sarà la Madonna, bisogna cucire un vestito bianco e un mantello azzurro, mi chiede quale Madonna perché mica sono tutte uguali.
Le chiedo quale le piacerebbe, non ci pensa neanche un’attimo “la Madonna dell’Arco”.
Tornando a casa penso a come è vestita la Madonna dell’Arco, a come sarà bella V. con il vestito bianco e la fascia azzurra, al testo da sistemare e alla conclusione da scrivere.
Il finale di uno spettacolo è importante, puoi sbagliare il resto, ma racchiude il senso di tutto.
Il finale ad oggi non è stato ancora scritto e non l’ho neanche mai sognato.