Elena si guardò intorno: le stanze del grande appartamento, all’ultimo piano di palazzo Donn’Anna, erano ormai vuote. Le sembrava di avvertire il respiro del tufo mentre il vento si intrufolava dai balconi semichiusi. Il mare poco distante muggiva. Si era lamentato tutta la notte, lei non aveva dormito nemmeno un istante. I mobili, le suppellettili, i dipinti, la statuina di Gemito che ritraeva il giovane pescatore, eredità del nonno paterno, erano stati portati via, il giorno prima, da uomini muscolosi che senza pudore si erano presentati in bermuda e canottiera. Pareva che i loro muscoli fossero pronti a esplodere come il Vesuvio sulla costa campana affollata di gente e costruzioni.
Si erano piegati sotto il peso dei mobili antichi di noce, urlando in quella lingua verace che sembrava deformata dal loro malessere. Se n’erano andati senza nemmeno un saluto ma anche lei non aveva avuto voglia di seguirli, accompagnarli alla porta come si fa secondo la buona maniera.
Era rimasta da sola per un tempo che non si poteva misurare, forse erano trascorsi secoli, mentre fissava le pareti ormai nude sotto squarci del parato consumato, lampadine che pendevano nude e senza luce dal soffitto alto e stuccato di oro. Nobiltà scaduta o scadente. Non avrebbe saputo dirlo.
L’ultima vera e grande signora era stata sua nonna, la marchesa Matilda.
Così diversa da lei, scura di pelle e di capelli. Elena invece non si poteva dire a quale latitudine appartenesse, forse a nessuna di questo globo, amava dire scherzando. I capelli biondi, lunghissimi arrivavano ai lombi, gli occhi avevano lo stesso colore del mare cangiante dal verde all’azzurro. Per una vita intera si era sentita dire che non era di questo mondo e aveva vissuto davvero così come una creatura intermedia alla ricerca da sempre della sua identità.

La marchesa se n’era andata qualche mese prima con una malattia vorace che aveva consumato il suo corpo, nutrendosi dei suoi muscoli, tormentandola con spasimi terribili.
“Resisti, nonna, non posso farcela senza di te”, la supplicava ogni giorno.
E la marchesa si sforzava di sorridere masticando la sofferenza con grande compostezza come conviene a quelli del suo rango.
Poi una sera l’aveva convocata:” Ti voglio vicino a me, piccerella”.
Elena aveva capito che stava succedendo, perché la nonna non la chiamava così da una vita.
“Piccerella, sta qui, non avere paura” e le aveva stretto la mano. Matilda aveva chiuso gli occhi sorridendo. Se n’era andata in pace.
Magra consolazione. Adesso avrebbe dovuto farcela da sola. Le restava la voce del mare, che a palazzo Donn’Anna entra dentro le case. È una benedizione, una nenia perenne, un canto materno. Quel mare le teneva compagnia, placando ogni inquietudine.
Cominciava ormai ad albeggiare, le onde si infrangevano sui fianchi del palazzo con impeti improvvisi e imprevedibili. Era il richiamo del mare, Elena lo aveva sempre avvertito in maniera più forte degli altri. Correva ad affacciarsi subito, stendeva le mani per catturare gli spruzzi dell’acqua.
La nonna le aveva raccontato che una volta da bambina aveva rischiato di precipitare tra le onde.
La casa era stata venduta a un commerciante che pagava in contanti una somma più alta di quella richiesta. L’agente immobiliare aveva insistito per chiudere subito la trattativa. Con quei soldi si sarebbe aggiustato tutto: avrebbe saldato i creditori e risanato il conto in banca in rosso da mesi. Poi avrebbe cercato un lavoro.

Diede uno sguardo distratto agli scatoloni: lì dentro c’era solo un parte della sua vita. L’altra parte se ne stava in uno spazio compreso tra il cielo , il balcone e il mare lì sotto, che continuava a urlare.
I facchini entrarono e questa volta in silenzio portarono via tutto. Lei li seguì per le scale di pietra, evanescente, in un abito lungo e leggero, i capelli morbidi sulle spalle, i piedi nudi sui gradini sbrecciati. Non sapeva dove sarebbe andata. Non aveva pensato di cercarsi una casa. Dal balcone del cortile arrivava la voce ruvida dell’acqua. L’ultima cosa che videro di lei fu una coda di squame luminose.