Quel silenzio mi invade di angoscia.

Il tremore alle gambe mi costringe a un’andatura lenta, poggio i piedi sul pietriccio del marciapiede sentendone risalire tutta la calura, le mani foderate di guanti in lattice
mi fanno sudare, ma devo resistere, naso e bocca coperti da una mascherina nella quale respiro appena. La salita che da casa mia raggiunge piazza Vanvitelli mi fa arrivare fin sopra con il viso congestionato e la fronte imperlata di sudore. Respiro appena, mi volto una, due volte, non c’è nessuno dietro di me, sono da sola. Continuo a salire lenta, il respiro si fa corto.

Non uscivo di casa da circa sessanta giorni, ho bisogno di respirare, ma di farlo all’aria aperta, di sentire il tepore del sole riscaldarmi la pelle del viso anche se in parte coperta, come il resto del mio corpo, impaurita che il ‘Mostro’ ne venga a contatto.

Mi guardo intorno e noto che ci sono soltanto io per strada, né una persona, né una macchina, eppure è mezzogiorno, ma non si sente alcun rumore, anche gli aerei non volano più, il mio udito sembra ovattato, come un subacqueo nel buio del fondo del mare. È un silenzio insopportabile perché innaturale.

Mentre cammino, mi sento come proiettata in quel film del 1952 di Marcello Marchesi dal titolo “Noi due soli” il cui protagonista, interpretato da Walter Chiari si ritrova proiettato in uno scenario futuristico post apocalittico, ma quello era solo un suo sogno, mentre ora purtroppo è cruda realtà, che pone ognuno nella medesima condizione di sopravvivenza.

«Come fa a non piacerti questo silenzio? Si sta così bene senza alcun rumore», avevo sentito dire dalle amiche su skipe, qualche giorno prima.

Non hanno capito, no, per me non è un silenzio di pace, ma di morte reale e presunta ed è ciò che più mi angoscia. Vorrei risentire i suoni e le voci di chiunque, ma per ora non si può, bisogna aspettare.

È arrivato rapido questo mostro chiamato “coronavirus” terrorizzando tutta l’umanità senza differenze di latitudine.

È arrivato con la sua funesta ferocia, all’inizio di questo nuovo anno bisestile, falciando un numero di vite inverosimile, lasciando centinaia di persone sole e distrutte nell’animo da un mostro invisibile, che ha varcato confini senza armi né permessi, senza trovare alcun ostacolo.

È arrivato mentre la Natura iniziava a germogliare noncurante dell’orribile virus che s’infiltrava ovunque trovasse sfogo. Ciliegi e mandorli in fiore, staccionate coperte da grappoli di glicini, uccellini che fischiettano beati di aver ritrovato il loro ambiente naturale, nel mare non lontano dal porto di Napoli, addirittura i delfini.

Continuo a camminare per le strade principali del mio quartiere: via Cimarosa, via Scarlatti, via Luca Giordano, tutto è chiuso, saracinesche abbassate per un decreto che bisogna necessariamente rispettare, per la tutela della collettività.

Tutto spento, silenzio assoluto.

Dalla parte opposta alla mia, intravedo un uomo con il suo cane, anche lui ha la mascherina e i guanti, ci fissiamo restando distanti, nei reciproci sguardi vi è il terrore di essere contagiati, contagiati dall’ignoto.

Sono terrorizzata d’incontrare qualcuno, ho paura del contatto, “ma ho la mascherina” penso all’istante, pur di calmarmi.

L’angoscia mi assale, voglio ritornare a casa, ho bisogno di sentirmi protetta dalle pareti di casa mia, dal mio nido, rifugio sicuro, ma anche inevitabile gabbia.

Il mondo si è fermato, ora sì che siamo tutti uguali con un unico obiettivo: Ritornare a vivere con la fragile speranza di essere cambiati per un Universo migliore.