«Signor Cretella, lei crede che noi scendiamo dalle nuvole?».

Li avevo fatti incazzare, ma non tanto da farli scendere dalla volante.

«Per amor di Dio, brigadie’!».

«Ci siamo detti tutto, allora. ’Sera!».

Fiuu. Me l’ero vista brutta. Ero in tenuta sportiva. Sudaticcio ed ansimante, per di più.
Che non stessi andando in farmacia era ovvio. Ma vollero sorvolare.

Ai tempi del coronavirus abitavo in via Belvedere, Napoli. La mia “attività sportiva”, rigorosamente illegale durante quella benedetta quarantena, consisteva nell’andare su e giù per un’antica strada che, partendo dal Vomero Vecchio, discende a Chiaia.
Amavo Calata San Francesco. Il primo tratto, soprattutto. Quello che porta, puntando deciso verso Capri, a via Aniello Falcone. Aveva il potere di regalarmi una serenità mai provata altrimenti. Il tempo, in quella strada, pareva essersi fermato. Fluttuava, Calata San Francesco, a mezz’aria, tra il prima e il dopo, tra il passato e il presente, tra il presente e il futuro. Ogni volta che potevo, perciò, fuggivo dall’angusto monolocale che ospitava la mia detenzione, ed andavo a rintanarmi lì. Lì, finalmente…respiravo.

Una cosa curiosa, però: tante volte vi avevo passeggiato, in quel periodo: mai vista anima viva. Mai. Cioè, che le case e, soprattutto, i bassi fossero abitati era evidente.
Testimoni ne erano i panni stesi. Le antenne, paraboliche e non, ad altezza uomo. Le voci che uscivano noncuranti dalle finestre. Ma erano soltanto voci. E allusioni. E
panni stesi. Un cristiano in carne ed ossa, mai. Bah, pensavo, l’hanno presa sul serio, qui, ’sta quarantena!

Finché un giorno, all’imbrunire, a Calata San Francesco regnava il silenzio. Quello vero. Quello che è difficile incontrare.

Silenzio

Non una voce, non una televisione accesa, non un colpo di tosse. I panni stesi, le antenne, le auto sui marciapiedi stretti stretti, i paletti gialli, i motorini. Tutto sparito.
Camminavo, camminavo e sentivo soltanto il rumore dei miei passi. Ma poi neanche più quello.

Non sento più niente!

Sospettai di aver perso di colpo l’udito! Mi sentivo…leggero, sempre più leggero, come senza peso, come sulla luna. Esitando, ero intanto arrivato all’altezza di Villino Maria. Da cui mossero impreviste le parole di una donna:

«Signora Cretellaaa! Signora Creté, ve stongo aspettanno ’a mez’ora!».

Dal basso di fronte uscì subito, mortificata, la risposta di una giovane voce:

«Sto venenno, Signora Troì, sto venenno!».

Seguii il breve dialogo con la testa, ma non vidi né l’una né l’altra donna. Soltanto le loro voci: nient’altro.

Cretella, il mio cognome.

Mi sedetti a terra, confuso e sconcertato. Alcuni palazzi, i più recenti, erano svaniti. E quelli rimasti apparivano indubbiamente più nuovi. Sembrava piuttosto una strada di campagna.

«André, André, vieni ’a ccà! Arò vaie?».

Dal basso della signora Cretella schizzò via un bambino, cinque o sei anni al massimo.

Andrea, il mio nome.

Veniva, scalzo e sicuro, verso di me. Aveva un pantaloncino scuro logorato dall’uso e dal tempo, e una camicetta bianca non ancora appuntata per bene. Mi si arrestò davanti, ed io, impietrito, aspettavo dicesse qualcosa. Ma lui non faceva altro che fissarmi, con i suoi occhi grandi e grigi, per non so quanto tempo: secondi, o forse ore.
D’un tratto, mi sorrise. Un sorriso presente, consapevole, rassicurante. Il suo sguardo s’era fatto adulto e vissuto. Poi, come se avesse assolto il suo compito, si girò e, senza mai più guardarmi, scomparve nel buio del suo basso.

Ne è passato di tempo dai mesi del coronavirus. Ma non ho avuto mai il coraggio di parlare dell’accaduto. E soltanto molti anni dopo, trovai, spulciando tra vecchi album, una vecchia foto che nessuno conosceva o ricordava: quel bambino, nel 1919, ritratto fuori al basso della signora Cretella. Era mio nonno.