Lunedì 4 maggio 2020 ore 9.00.
Con fare incerto e con i mille dubbi sulla ripartenza, apro la porta del mio studio e provo a dare un senso al riavvio delle attività.
Prevale la polvere.
L’occhio cade sulla scrivania che, in tempi normali, è il regno del caos tra carte, documenti e l’immancabile PC portatile.
E il mio sguardo è rapito dall’agendina cartacea desolatamente solitaria.
Non gli ho mai dato particolare importanza se non per la sua “umile” funzione di promemoria e per il fatto che, annualmente, mi viene regalata da una persona cara.
Un oggetto al quale non ti affezioni. Che va scomparendo. Vittima delle “agende virtuali”.
A me, invece, piace poter visualizzare gli impegni dell’intera settimana con un solo sguardo.
E mi diverte il gesto, quasi rituale, che in maniera automatica mi porta, il venerdì sera, a spostare la fettuccia segnapagina alla settimana successiva.
Ora, sto davanti a lei, e mi viene naturale prendere quella fettuccia e aprirla.
Ed è qui che, di colpo, la memoria mi riporta tristemente a quando ero bambino.
Rivedo gli orologi di tante chiese e di tanti palazzi pubblici che, in quel maledetto 23 novembre 1980, si fermarono e che, per anni, hanno segnato le ore 19.34.
A testimonianza visiva della tragedia del terremoto in Irpinia.
Perché, come un novello orologio, la mia agendina si apre sulla settimana che va dal 9 al 15 marzo.
Eh sì, proprio quella.
La prima settimana di chiusura.
Il cosiddetto Lockdown.
Come se l’uso di un termine inglese rendesse il tutto meno doloroso.
Ecco cosa ha rappresentato per me la quarantena: l’orologio fermo sulle 19.34.
Due mesi nei quali più che provare a ritrovarmi, ho cercato di non perdermi.
Grazie anche alla riscoperta della semplicità.
Il ritorno alle cose basiche della vita, tra cui quelle ormai dimenticate o colpevolmente sottovalutate. Ho scoperto, ad esempio, di poter fare delle fantastiche marmellate con i frutti degli alberi in giardino. Eppure quegli alberi sono lì da anni.
Così come ho potuto finire i due libri lasciati, da tempo, sul comodino con le ultime pagine ancora da leggere. Ed anche i libri sono lì da tanto.

Una semplicità a cui si è aggiunta l’osservazione.
Quella reale, racchiusa nell’ossimoro “ascoltare il silenzio”.
Quel silenzio che ha la capacità di far riemergere i suoni della natura. Come il miagolìo malinconico della gatta sul retro che ora sembra un urlo disperato.
E una osservazione virtuale. La cosiddetta “rete”.
Guardare il mondo grazie ai social. Esercizio non sempre esaltante.
Con la signora che ha sempre abbandonato le buste di monnezza ovunque e, che ora denuncia, solo sui social, i vicini che non rispettano le ordinanze.
Oppure il ragazzo che, per sfortuna o per scelta, nel gioco di ruolo tra guardie e ladri non è mai stato guardia e che ora si erge a paladino della legalità, pronto a tornare dall’altra parte, passata l’emergenza.
La pandemia è anche questo. Una sorta di inversione irreale dei ruoli.
Una fotografia, a tratti spietata, dei tempi in cui viviamo.
Ma la quarantena ha fatto capire, a chi ha voluto capire, l’importanza del tempo.
E la possibilità di poter rallentare, se occorre.
Il premio nobel per la letteratura Orhan Pamuk, nel suo capolavoro Instanbul, afferma che:
“Coloro che si preoccupano di dare un significato alla vita si interrogano almeno una volta sul senso dello spazio e del tempo in cui sono nati” e io aggiungerei … ed in cui vivono.
E per far ciò, occorre che ognuno di noi abbia la forza di ritagliarsi un momento per sé.
Fino al 9 marzo sembrava impossibile “interrogarci”.
E, invece, ora sappiamo che basta volerlo!